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La vita è una cucina, con lo chef Juan Sebastian Perez

da | CONSIGLI DALL'ALTO, LASCIATI ISPIRARE, Tendenze dell'ospitalità

La vita e la cucina dello chef Juan Sebastián Pérez sono dedicate a far rivivere e a rendere omaggio all’identità culinaria

Appassionato di cucina sin da giovane, la sua formazione lo ha portato a Le Cordon Bleu e, da lì, in tutto il mondo. Tornato a casa sua, ha intrapreso un viaggio all’insegna della scoperta e alla ricerca delle antiche tradizioni, per coltivare e produrre le materie prime autoctone delle quattro regioni del suo Paese.

Il suo ristorante Quitu Identidad Culinaria, a Quito, è un testamento all’identità culinaria dell’Ecuador, e il punto di partenza della ricerca di Juan Sebastián nelle tradizioni gastronomiche di Messico, Perù e della sua terra natale.

Qual è la nuova normalità per gli chef in Ecuador? 

Gli ultimi quattro mesi sono stati un po’ più facili: c’è un fermento generale, le persone escono e spendono, senza chiedersi perché o quanto. I ristoranti sono pieni di clienti. Non credo sia sostenibile ma ci ha aiutato a rimetterci in sesto. È ancora difficile perché abbiamo tutti dei debiti. E la gente tende a pagare di meno.

È stato un anno infernale per tutto il settore, sono solo economicamente ma anche a livello emotivo, abbiamo visto dirigenti e CEO cadere in depressione quando tutto il personale dipendeva da loro.

Il lato positivo è che stiamo tutti ricominciando da zero. È facile capire quali aziende si sono sottoposte a una profonda ristrutturazione e si sono reinventate. Non credere a chi ti dice che la pandemia è stata solo un’altra crisi. Il 2018 e il 2019 sono stati anni molto duri per il settore in Ecuador. Eravamo tutti bloccati in una sorta di circolo vizioso, facendo affidamento sulle carte di credito e sugli scoperti. A ottobre 2019 ci sono stati degli scioperi a livello nazionale, ed eravamo appena usciti da quella situazione all’inizio del lockdown.

Noi che abbiamo tenuto duro, che abbiamo resistito, ci siamo concentrati sul nostro obiettivo. Chi vorremmo avere come clienti nel nostro ristorante? Cosa ci aspettiamo dai nostri commensali? È un gruppo ridotto di persone, ma costante. E vi abbiamo creato intorno una comunità.

C’è stata una rinascita post-COVID?

Senza dubbio, si chiama Proposito, e ti mette su un altro piano. In Sud America, dipende tutto dal prestigio e dalle segnalazioni, e le persone tendono a non pensare alle materie prime, alla filiera produttiva e alla tracciabilità delle aziende. Ed è facile finire per mangiare cibo industriale in molti ristoranti. I principali gruppi del settore alimentare in Sud America, le catene di fast food, scompariranno perché non hanno alcun proposito.

Una conseguenza positiva della COVID è stata la fiducia e la solidarietà che ha portato tra le comunità. Ho trovato fornitori di materie prime autoctone, che potevo cucinare a casa e consegnare. Nel ristorante, abbiamo creato una cerchia di fiducia e abbiamo potenziato la nostra catena. È più piccola ma è piena di particolari, di cura e di quei valori intangibili che traspaiono nel proposito del nostro lavoro. Oggi, la mia unica missione è creare un legame con i clienti, far sapere loro chi ha coltivato quella carota o quella patata che stanno mangiando, e sto creando un contatto con loro sotto il profilo emotivo. Nowadays, my only mission is to connect customers, to let them know who grew that carrot or that potato they’re eating and I’m connecting them in an emotional way.

In questo modo, sei passato da un circolo vizioso a un circolo virtuoso?

Il mio ristorante si chiama Quitu Identidad Culinaria, che significa “la nostra identità culinaria”. Ancora prima della COVID, le persone confrontavano un ingrediente o una tradizione con le ricette che cucinavano le loro nonne. Così, ho iniziato a cambiare il modo tradizionale di cucinare quegli ingredienti, con una mia interpretazione personale che rispetta la tradizione, ma mostra il gusto naturale delle materie prime. Gli stranieri ne erano affascinati, ma all’inizio è stato difficile convincere la gente del luogo. Mi ricordo di aver invitato nel mio ristorante il medico che ha fatto nascere mio figlio.

Gli ho servito della chicha, una bevanda alcolica delle Ande. È fatta a partire da mais fermentato in un ambiente controllato, e la produce un mastro birraio con cui lavoro. Aggiungendo dello zucchero, aumenta la sua gradazione alcolica e diventa leggermente frizzante. È ottima per cucinare, ed è servita anche come aperitivo. Ne ho versato un bicchiere al medico e lui l’ha assaggiata e mi ha detto: “Mi hai fatto tornare a quando ero piccolo a casa dei miei nonni, e mi rendo conto di essere stato così immerso nel lavoro negli ultimi 10 anni da non averli mai chiamati. Dammi un secondo”. E li ha chiamati proprio lì, in quel momento.

I ricordi legati al cibo sono meravigliosi. Nel corso della COVID, mi sono immerso ancora di più nelle tradizioni e ho iniziato a recuperare materie prime antiche che facevano parte della nostra alimentazione di centinaia di anni fa, come il gelato di patate. Avevo delle patate nere che provenivano dalla comunità con cui collaboriamo. Quando le patate invecchiano, diventano più dolci. Ho messo caramello, latte, patate e papaya nella macchina del ghiaccio. Il risultato è stato ottimo grazie al gusto terroso di questa varietà di patate. Anche il colore era molto accattivante ed era l’abbinamento perfetto per un rosato argentino. Avevo trovato un modo per generare interesse. Ho iniziato a venderlo al litro. 

Poi, ho conosciuto un anziano che ha iniziato a fornirmi vaniglia dell’Amazzonia, proveniente da un progetto che aiuta gli indigeni a coltivare la vaniglia e a venderla in maniera equo-solidale. Oggi, sono 20 le comunità che la coltivano e che vogliono iniziare a esportarla. E gli chef ne sono entusiasti. Per me, è un’altra storia d’amore che mi ha salvato nella pandemia, perché avevo accesso alla vaniglia e una piccola fattoria mi consegnava giornalmente i latticini. Ed era gelato alla vaniglia per tutti. 

Sei stato costretto a ridimensionare il tuo progetto?

Prima, il prezzo del menu era di 50 $ a testa, e avevo 15 dipendenti. Ma mi stavo mordendo la coda. Dopo la COVID, ho iniziato a servire un menu da 12 $ a pranzo, buona cucina, con il budget del giorno prima per fare la spesa al mercato. Dicevo ai miei clienti: “Probabilmente non sapete cosa mangerete, ma mangerete bene e vi sazierete”.

E si è sparsa la voce in tutta la comunità. Ai tempi non avevamo turisti. Poi, ho aperto per cena con un menu a 12 $ e uno a 25 $. E tutti sceglievano quello da 25 $. Poi, i clienti hanno iniziato a ordinare il menu da 25 $ più l’abbinamento vini. Mi sono trasferito da un locale da 5.000 $ a uno da 500 $. Avevo meno di 1.000 $ nel conto in banca. E lavoravo ininterrottamente. Non era il miglior ristorante o quello più bello, ma era pieno di amore, cura, lavoro e sacrificio.

Ora ho due menu a pranzo e a cena, uno da 50 $ e uno da 30 $, 10 posti a sedere invece di 40, una persona che lavora con me quando siamo al completo, e una persona che ci aiuta a pulire. Ruota tutto intorno all’ospitalità che offri. Consiglio vivamente di leggere il libro Setting the Table. Afferma che una buona ospitalità ha il potere di rendere felici le persone e di trasformare la tua passione in un lavoro. Cosa puoi fare per aiutare i tuoi clienti a sentirsi liberi e a dimenticarsi delle proprie preoccupazioni quando sono nel tuo ristorante? È quella sensazione che li vorrà fare tornare.

Sappiamo che hai portato la tua cucina ecuadoriana in Spagna, a Madrid 

Se conosci il panorama gastronomico spagnolo, saprai sicuramente chi è Ignacio Medina. Ignacio è venuto nel mio ristorante. Era da solo, stanco, reduce da tanti viaggi. Quella sera, il ristorante era vuoto. L’ho fatto sedere dove voleva lui, gli ho servito un po’ di ceviche e della selvaggina. Siamo diventati amici.

Dopo la pandemia, Ignacio è tornato nel mio ristorante lo stesso giorno in cui, finalmente, erano tornati i pescatori. Dopo quattro mesi a servire verdure e proteine di provenienza locale, tornavo ad avere un menu di pesce! Due settimane dopo, mi ha invitato a Madrid per parlare dei prodotti e della gastronomia della mia terra. È stato a febbraio del 2021. Ignacio si è ammalato di COVID qui in Ecuador. Ha rischiato la morte e mi ha chiamato per chiedermi di portargli il pranzo, ma il fattorino di Uber non si è presentato. Medina ha anche il diabete e ha dovuto farsi quattro iniezioni di insulina per colpa mia. Era furioso, come potete immaginare!

A Madrid, ero circondato da chef famosi. Ho tirato fuori degli insetti, dei porcellini d’india, della carne di lama, e tutte le telecamere hanno iniziato a riprendere il mio tavolo. Ero da solo. Gli altri chef avevano dei collaboratori, io avevo uno zaino e dei coltelli presentabili. Eravamo tre chef sudamericani in questa sala con 500 persone. Uno chef colombiano, uno chef peruviano, e io. Io e lo chef colombiano abbiamo cucinato entrambi il porcellino d’india, ma in modi diversi. Ho messo a bollire del brodo, e ho tostato le ossa del lama per fare la demi-glace. Ho fatto tutto entro il limite di 30 minuti: tartare di lama e terrina di porcellino d’india con pelle tostata e pâté. 

L’ho fatto assaggiare a tutti: cuochi, giornalisti e, naturalmente, a Ignacio Medina. Ho sentito un legame con loro. È partito tutto dall’ospitalità. Cucinare è facile. Devi solo trovare le migliori materie prime e cucinarle il meno possibile. Adesso, non ho 15 cuochi che mettono fiori sul piatto con le pinzette, sono solo io, e la maggior parte di quello che cucino va dalla padella o dal forno a legna direttamente nel piatto.

Quali sono i principi dell’ospitalità che ti ispirano?

Mi chiedo sempre come fare in modo che sia il cibo a parlare. Devo essere molto attento con i coltelli, i colori, la rosolatura, la caramellizzazione. Mia moglie è una designer d’interni. Mi ha insegnato che un progetto è finito quando non rimane più niente da togliere. Less is more.

Io obbedisco solo alle materie prime. Sono loro a dirmi cosa fare. Come quelle nonne che preparano da mangiare per le grandi famiglie facendo magie con una manciata di riso e dei fagioli. Il cibo non è solo qualcosa da mangiare, è fatto di emozioni, di ricordi, di legami. È ciò che significa essere qui o avere uno, due, o 40 commensali che ricordano i tempi duri e festeggiano insieme. 

La COVID-19 ha rappresentato un punto di svolta nella mia carriera. È un nuovo inizio. Che tu sia uno chef, un barman o un sommelier, devi dare il meglio di te ogni giorno. Si tratta di scoprire chi sei. La vita è una cucina. E la persona seduta in sala è un’altra lezione di vita. Dopotutto, cos’è un ristorante? Non è un tempio della gastronomia o una cattedrale dell’ego, è un luogo da cui uscire diversi rispetto a come si è entrati.

Le Cordon Bleu è una scuola di cucina leader al mondo con oltre 120 anni di storia. Grazie ai suoi corsi variegati e dinamici, insegna le tecniche fondamentali delle arti culinarie (cucina, pasticceria e panificazione), vino, nutrizione e gestione per offrire ai suoi studenti il miglior inizio possibile in cucina e nella vita.

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